sabato 28 gennaio 2012

Adozione e scuola: le nostre riflessioni

Stilare protocolli di accoglienza e/o tracciare linee-guida per insegnanti è cosa buona e utile, ma non sufficiente. Occorre fornire agli operatori scolastici (direttori, esperti, insegnanti di sostegno, coordinatori e rappresentanti di classe) precise indicazioni su “come funzionano” i bambini/ragazzi adottivi.

La scuola valorizza le diverse abilità e competenze degli allievi, dispone di personale specializzato in grado di affrontare le difficoltà specifiche nell’apprendimento (dislessia, discalculia, ecc.); ma non è attrezzata per accogliere bambini/ragazzi traumatizzati.

L’esperienza delle famiglie e delle associazioni di genitori adottivi, i numerosi studi sull’argomento, l’esperienza degli operatori specializzati in adozione (ora in fase di formazione anche in Ticino, anche se solo a livello personale) sono un valido aiuto alla comprensione della problematica.

Il problema è sottostimato per almeno due ragioni: la convinzione, ancora diffusa, che l’inserimento del bambino nella nuova famiglia sia di per sé risolutivo di ogni difficoltà e l’apparente facilità con cui la gran parte dei bambini dimostra di sapersi adattare alla nuova situazione.

Gli insegnanti devono sapere che gli adottati possono presentare problemi relazionali gravi che compromettono la formazione di nuovi legami, l’accettazione delle regole, la condivisione di un progetto, la costanza nel lavoro e sono facilmente soggetti a improvvisi e gravi cedimenti emotivi, che possono portare all’abbandono scolastico spesso seguito da quello famigliare.

A differenza dei coetanei, che trovano nell’apprendistato e nel lavoro una valida alternativa allo studio, le abilità tecniche (se acquisite) si rivelano insufficienti perché non sostenute da autostima e capacità di tollerare le frustrazioni.


Da dove partire

• Esiste una “specificità” dell’allievo adottato che rende la sua condizione diversa da quella dei coetanei: non è vero che “i bambini sono tutti bambini, che l’adozione è una fortuna, che il passato è passato”(1) ;

• specificità non vuole dire patologia, né tanto meno artificio per pretendere indulgenza da parte degli operatori della scuola;

• la scuola deve sapere che i figli adottivi sono diversi dai figli biologici. Il trauma della perdita della mamma di nascita (indipendentemente dall’età dell’abbandono) lascia una profonda ferita che impedisce di pensare, esplorare il mondo e imparare dall’ esperienza;

• occorre tempo per elaborare il lutto della perdita (non solo della mamma ma di tutto un mondo), colmare la frattura di una vita spezzata (tra prima e dopo l’adozione) e sperimentare la serenità trasmessa da un accudimento amorevole;

il trauma patito nella prima infanzia genera un problema di attaccamento che rende difficoltosa la creazione dei nuovi legami. L’ansia del bambino/a di compiacere i suoi neogenitori (veri e propri “salvatori”) può trarre in inganno ed affrettare i tempi di inserimento a scuola;

prima di insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, bisogna insegnare ai bambini ad ascoltare il proprio corpo (fame, sete, caldo, freddo, ecc.), a non avere paura dei sentimenti, a dare un nome alle emozioni, a fare propri i nuovi ritmi (studio-gioco, veglia-riposo), a guardarsi allo specchio e notare i cambiamenti intervenuti (se cambia il corpo, anch’io potrò cambiare, diventerò più sicuro, ecc.);

i genitori adottivi spesso sopravvalutano la riuscita scolastica dei figli e attendono con ansia i primi risultati. Hanno bisogno di conferme: della “normalità” del bambino/a e delle loro capacità genitoriali;

• le neuroscienze hanno ampiamente dimostrato che lo sviluppo del cervello (del sistema limbico, regolatore delle emozioni, e della corteccia cerebrale, che permette il pensiero astratto) si completa nel corso dei primi anni di vita sulla base dalle esperienze sensoriali e degli stimoli ambientali;

• il trauma dell’abbandono ha conseguenze sulle capacità cognitive, affettive, sociali e naturalmente fisiche e psichiche del bambino e poi dell’adulto. I tempi e le modalità in cui tali interferenze si manifestano variano da soggetto a soggetto: ogni adottato ha una sua storia unica e irripetibile;

l’esposizione prolungata allo stress (assenza di cura, trascuratezza grave, maltrattamenti, abusi, ecc.) costringe i bambini/ragazzi a vivere in uno stato di costante allerta, di iper-vigilanza, che non dà tregua e che spaventa: ”Perché io sono così?”. Vorrebbero impegnarsi, riuscire a scuola, portare a termine un progetto, ma non ce la fanno e allora ingannano loro stessi: “non riesco, perché ho deciso di non impegnarmi”;

l’elaborazione di comportamenti adattivi alla realtà trae in inganno gli adulti: gli alunni adottati, in generale, si presentano come allievi simpatici, vivaci, intelligenti, che trasmettono ottimismo e rassicurano sulla buona riuscita nella vita;

• l’esperienza raccolta dalle famiglie conferma che è solo un problema rimandato. Le difficoltà scolastiche possono manifestarsi dopo anni, talvolta quando i ragazzi/e frequentano la scuola secondaria di I o II grado, o un apprendistato, dopo un percorso “apparentemente” buono. Gli insegnanti e i datori di lavoro (e naturalmente i genitori) pur disponibili, non riescono a capire e sottovalutano questo improvviso e inatteso cortocircuito della mente o lo spiegano, sbrigativamente, in termini di fisiologica e momentanea battuta d’arresto dovuta all’età;

• è qualcosa di ben più complesso: l’emergere, a distanza di anni, delle emozioni violente legate all’abbandono (rabbia, sfiducia, aggressività) e dei comportamenti (vagabondaggio) della prima infanzia. Il trauma sopito e non rielaborato si ripresenta in una nuova veste altrettanto devastante: l’abbandono scolastico spesso si accompagna alla negazione del legame filiale: “Non sei mia madre/padre!”. Questa presa di distanza dalla famiglia (vista come limitante e repressiva) spaventa i genitori e, di riflesso, aumenta lo smarrimento e la rabbia dei figli. Le loro reazioni sono fuori controllo e difficilmente arginabili; è come se si trovassero immersi in un gorgo mortale in cui cercano di reagire con gesti fuori controllo (probabilmente una reazione molto simile a quella avuta da bambini (“ferita primaria”) (2);

• se l’esposizione al trauma è il tratto distintivo dell’esperienza di ogni adottato, ognuno di loro reagisce con modalità proprie. Li accomuna la convinzione di essere indegni di amore (3) (si percepiscono come malvagi a causa dell’abbandono subito e da essi stessi procurato) e ciò condiziona il modo in cui si relazionano con i coetanei e con l’autorità (genitori, maestri, direttori, ecc.);

• alcuni si dimostrano compiacenti con tutti, non riuscendo ad essere selettivi negli affetti (devono piacere a tutti per sentirsi accettati); altri sviluppano comportamenti oppositivi e provocatori, che suscitano nell’interlocutore (famigliari, insegnanti, coetanei, ecc.) reazioni di chiusura, rabbia e distacco, le sole che questi ragazzi conoscono e sanno gestire;

• sono dinamiche acquisite che hanno messo radici (le connessioni celebrali createsi rendono impossibile agire in modo diverso). La situazione è cambiata, le persone sono disposte a dare loro fiducia e essi potrebbero “facilmente” cambiare, ma per loro nulla è cambiato: resta immutata la convinzione di non poter sfuggire al destino che li vede perdenti e maledetti. Questa d’altra parte è la sola reazione di cui hanno avuto esperienza;

il pericolo è scambiare i comportamenti di questi ragazzi/e per la loro vera indole. Occorre, invece, andare oltre la “maschera” e aiutarli a scoprire il loro vero Io;

• ora allievi modello, ora figli ingestibili, o viceversa. Comportamenti contrastanti che disorientano insegnanti e genitori e possono portare a reciproci irrigidimenti e palleggio di responsabilità. Da qui l’importanza di un dialogo costruttivo e continuo, di un patto educativo tra adulti che riconoscono di avere tante cose da imparare, ascoltandosi;

l’adozione non è un fatto privato, interno alla famiglia. Per curare le ferite degli adottati occorrono delle competenze specifiche. I genitori e gli insegnanti non devono essere lasciati soli, hanno bisogno del sostegno di professionisti competenti, specializzati in adozione, pronti ad elaborare e condividere strategie mirate;

• infine, ma non certo per ultimo, occorre riflettere sul condizionamento esercitato dall’attuale imbarbarimento culturale, promosso da una classe politica in cerca di consenso, che ha sostituito i valori dell’accoglienza con quelli del sospetto e dell’esclusione; che rema contro l’integrazione e parla di pericolo del diverso (soprattutto se di colore). E’ in questo contesto svalorizzante che noi chiediamo/pretendiamo dai nostri figli di sentirsi “uguali” ai loro coetanei e di correre, correre senza fermarsi, per stare al loro passo. Dovremmo, invece, fermarci un attimo a riflettere, così da poterci accorgere che proprio i nostri figli feriti “hanno una marcia in più nella comprensione delle cose della vita, nella lettura dei fatti”.(4) Sono portatori di saperi e di abilità diverse dalle nostre: un vero tesoro che ha solo bisogno di essere portato alla luce.

(1) Anna Guerrieri e Monica Nobili,"Raccontare l'adozione a scuola",Associazione Genitorisidiventa Onlus
(2) Nancy Newton Verrier,"La ferita primaria"
(3) Nancy Newton Verrier, "Renouer avec soi"
(4) Anna Guerrieri e Monica Nobili, op. cit.

giovedì 12 gennaio 2012

Imparare ad educare

Un figlio adottivo, ormai grande, ci ha scritto (http://www.spazioadozione.org/ "Imparare ascoltando i figli") quanto sia difficile per un genitore conoscere il proprio figlio: “prima lo educhi e poi lo conosci”. In effetti  a me è successo proprio questo. Ho iniziato il mio percorso adottivo completamente ignara delle problematiche che avrei incontrato, rassicurata dall’assistente sociale di turno che me la sarei cavata senza problemi. Questa era, e purtroppo  è ancora oggi, la convinzione di chi opera in Ticino: con l’amore si superano tutte le difficoltà.
 
Conoscere come i bambini vivono l’abbandono ( come reagiscono alla perdita, quali comportamenti mettono in atto per non sentirsi vulnerabili, perché non riescono a liberarsi del profondo senso di colpa, perché restano ostaggio del trauma e hanno difficoltà a costruire nuovi legami, ecc.) è stato determinante per iniziare a capire e a comprendere. La conoscenza, invece, è qualcosa che si costruisce giorno per giorno: pensi di avercela fatta e poi ti accorgi che le cose non quadrano ancora. D’altra parte è difficile conoscere qualcuno che ha bisogno di “mimetizzarsi”, di nascondersi dietro una “maschera”, che ti chiede: “ma io chi sono veramente?”
 
Sono convinta, partendo dall’ esperienza condivisa con i genitori di Spazioadozione, che far conoscere la realtà dell’adozione debba essere il nostro obiettivo primario.
“Prima lo educhi e poi lo conosci”, è vero, ma abbiamo bisogno di imparare ad educare per poi condividere la nostra esperienza con gli insegnanti delle scuole, che hanno il difficile compito di accompagnare i nostri figli ad esplorare il mondo.